domenica 21 marzo 2010


Gesù “professionista” del silenzio:

il vangelo dell’adultera.

Il brano del vangelo di questa V domenica di quaresima, è un testo molto particolare.

La sua collocazione nel vangelo di Giovanni è avvenuta dopo vari pellegrinaggi negli altri vangeli.

Solo recentemente il testo è stato inserito nei lezionari liturgici.

Forse la chiesa aveva paura di far vedere agli uomini l’infinita misericordia di Dio?

Forse la chiesa non sapeva come giustificare le proprie condanne di fronte ad un Gesù, che pur potendo condannare (essendo senza peccato) non condanna ma usa misericordia e da speranza?

Resta il fatto che l’odierno vangelo ci presenta un atteggiamento di Gesù molto interessante per noi artisti del Silenzio.

Gesù usa il silenzio di fronte agli scribi e i farisei che portando una donna trovata in flagrante adulterio, voglio porgli una trappola per poi accusarlo.

Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.
E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».
E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.

Gesù con il silenzio e il misterioso gesto dello scrivere a terra, comunica con i suoi interlocutori.

In questo silenzio, gli accusatori si trasformano.

Nel silenzio Gesù fa passare gli accusatori da un piano esteriore, quello dell’osservanza della legge mosaica, ad un piano interiore, quello della coscienza.

Il “chi è senza peccato” diventa un monito a guardarsi dentro, a giudicare se stessi, fare il proprio esame di coscienza.

Come ha detto oggi nell’Angelus il Santo Padre, “bisogna condannare il peccato, sopratutto il proprio, ma essere indulgenti con il peccatore”.

Il chinarsi a terra di Gesù, è figura della Kenosi di Dio, del suo abbassarsi sull’uomo, sulle sue miserie.

Gesù nel silenzio scende allo stesso livello della peccatrice, quello stare a terra, quasi a volersi fare più facile bersaglio delle pietre che avevano già in mano coloro che avevano condannato l’adultera.

Il silenzio, il chinarsi a terra, lo scrivere sulla sabbia, il “chi è senza peccato scagli per primo la pietra”, disarmano quegli uomini, gela/blocca la loro arroganza (frutto del loro senso di colpa), che se ne vanno sconfitti.

Per l’adultera quel momento diventa la SUA ORA.

L’ora dell’incontro con l’AMORE SENZA CONFINI DI DIO.

Solo attraverso questo fare silenzio anche di fronte al nostro peccato, possiamo essere nella conversione.

Il silenzio diventa esame della nostra coscienza, vivere l’umiliazione (umiltà- humus/terra) della condizione di peccatore; ed è qui che, se veramente coscienti della nostra misera di peccato, bisognosi d’AMORE RICOSTRUTTIVO, possiamo alzare lo sguardo a Cristo e accogliere la sua MISERICORDIA.

Il silenzio è il luogo in cui Dio CAMBIA IL CUORE DELL’UOMO.

Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo.
Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più».

Gesù resta solo con l’adultera, la miseria e la misericordia s’incontrano, come commenta Sant’Agostino, qualcosa di nuovo germoglia: la vita nuova della Riconciliazione con Dio.

Questo è fare Pasqua.

don Mauro, monaco silente.

venerdì 19 marzo 2010

VANGELO V DOMENICA DI QUARESIMA C Gesù scrive a terra, in silenzio, senza dire nulla

Lettera di San Bruno a Raul le vert

Uno dei due testi sicuramente scritti da San Bruno.

La lettera a Rodolfo è in realtà la descrizione del carisma certosina come Bruno l'aveva concepito fin dal suo sorgere.

Un testo che parla poco del silenzio, ma che ne descrive i FRUTTI.


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A Rodolfo il Verde


1. Al venerabile signor Rodolfo, prevosto di Reims, degno di essere onorato con i più sinceri sentimenti di affetto, Bruno porge il suo saluto.

La fedeltà a una vecchia e provata amicizia che si vede in te è tanto più ammirevole e degna di elogio quanto più è raro incontrarla tra gli uomini. Sebbene, infatti, una grande distanza ed un ancor più lungo spazio di tempo abbiano tenuto separati, l'uno dall'altro, i nostri corpi, tuttavia i tuoi sentimenti di affetto non è stato possibile tenerli lontani dall'amico. Ciò risulta abbastanza evidente dalle tue dolcissime lettere, nelle quali mi hai espresso la tenerezza della tua amicizia, ed altresì dai benefici tanto generosamente prodigati, non solo a me, ma anche, per causa mia, al fratello Bernardo, e da molti altri segni ancora. Per questo porgo i miei ringraziamenti alla tua benignità; essi, certamente, risultano impari ai tuoi meriti, ma, d'altra parte, sgorgano dalla sorgente pura dell'amore.

2. Un viaggiatore, abbastanza fedele in altre missioni, già da lungo tempo è partito con una lettera diretta a te; ma, dato che fino ad ora non è ricomparso, ho giudicato opportuno inviarti uno dei nostri, perché esponga a viva voce più compiutamente tutto ciò che mi riguarda, poiché per iscritto riuscirei a farlo meno bene.

3. Ti faccio dunque sapere, mio degno amico, poiché ritengo che ciò non ti sarà sgradito, che quanto al corpo sto bene - oh se fosse così anche per l'anima! - e che, per quanto riguarda le cose esteriori, procede tutto bene, secondo i miei desideri. Ma, attendo, anche, supplicando, che la mano della divina misericordia guarisca tutte le mie malattie interiori e sazi dei suoi beni il mio desiderio.

4. In territorio di Calabria, con dei fratelli religiosi, alcuni dei quali molto colti, che, in una perseverante vigilanza divina attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito appena bussa, io abito in un eremo abbastanza lontano, da tutti i lati, dalle abitazioni degli uomini. Della sua amenità, del suo clima mite e sano, della pianura vasta e piacevole che si estende per lungo tratto tra i monti, con le sue verdeggianti praterie e i suoi floridi pascoli, che cosa potrei dirti in maniera adeguata? Chi descriverà in modo consono l'aspetto delle colline che dolcemente si vanno innalzando da tutte le parti, il recesso delle ombrose valli, con la piacevole ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti? Né mancano orti irrigati, né alberi da frutto svariati e fertili.

5. Ma perché indugiare a lungo su tali cose? Altri, certamente, sono i piaceri dell'uomo saggio, di gran lunga più gradevoli e più utili, poiché divini. Ma tuttavia l'animo, troppo debole, affaticato da una disciplina troppo rigida e dalle applicazioni spirituali, molto spesso con queste cose si risolleva e respira. Se, infatti, l'arco è continuamente teso, si allenta e diviene meno atto al suo compito.

6. Quanta utilità e gioia divina rechino la solitudine e il silenzio dell'eremo a coloro che li amano, lo sanno solamente quelli che ne hanno fatto esperienza.

Qui, infatti, agli uomini forti è consentito raccogliersi quanto desiderano e restare con se stessi, coltivare assiduamente i germogli delle virtù e nutrirsi, felicemente, dei frutti del paradiso. Qui si conquista quell'occhio il cui sereno sguardo ferisce d'amore lo Sposo, e per mezzo della cui trasparenza e purezza si vede Dio. Qui si pratica un ozio laborioso e si riposa in un'azione quieta. Qui, per la fatica del combattimento, Dio dona ai suoi atleti la ricompensa desiderata, cioè la pace che il mondo ignora, e la gioia nello Spirito Santo.

Questa è quella Rachele avvenente, di bell'aspetto, che Giacobbe, sebbene fosse meno fertile di figli, amò più di Lia, certo più feconda ma dagli occhi cisposi. Meno numerosi, infatti, sono i figli della contemplazione rispetto a quelli dell'azione; tuttavia Giuseppe e Beniamino più degli altri fratelli sono amati dal padre.

Questa è quella parte migliore che Maria ha scelto e che non le sarà tolta.

7. Questa è quella bellissima Sunamita, l'unica trovata in tutto il territorio d'Israele, che, giovane, potesse accarezzare e riscaldare l'anziano Davide. Magari, fratello mio carissimo, tu la amassi sopra ogni altra cosa, sicché, riscaldato dai suoi abbracci, tu potessi ardere di amore divino. Se anche una sola volta il suo amore si stabilisse nel tuo cuore, subito quella seducente e carezzevole ingannatrice che è la gloria del mondo sarebbe per te degna di disprezzo e le ricchezze che tanto inquietano e sono tanti pesanti per l'animo facilmente le respingeresti e, altresì, proveresti ripugnanza per i piaceri, nocivi sia al corpo che allo spirito.

8. La tua saggezza, infatti, conosce bene chi è colui che dice: Se uno ama il mondo e ciò che è nel mondo - ovvero il piacere della carne, la concupiscenza degli occhi e l'ambizione - l'amore del Padre non è in lui; ed inoltre: Chi vuol essere amico di questo mondo si fa nemico di Dio. Che cosa vi è, dunque, di tanto iniquo, che cosa di tanto insensato e di tanto dannoso e sventurato quanto il voler agire contro colui alla cui potenza non si può resistere, e alla cui giusta vendetta non si può sfuggire? Siamo, forse, noi più forti di lui? Forse che, solamente perché la pazienza della sua pietà ci spinge al pentimento, non punirà infine le offese di coloro che lo disprezzano? Che cosa infatti, vi è di più perverso, d'opposto alla ragione, alla giustizia e alla natura stessa, dell'amare più la creatura che il creatore, del ricercare più il perituro che l'eterno, più il terreno che il celeste?

9. Che cosa, dunque, pensi di fare, carissimo? Che cosa, se non credere ai consigli divini, credere alla verità che non può ingannare? Tutti, infatti, essa consiglia, quando dice: Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò. Non è una pessima ed inutile fatica l'essere tormentati dalla concupiscenza, l'essere incessantemente afflitti da preoccupazioni e ansietà, da timore e dolore per le cose desiderate? Quale peso è più grave di quello che abbassa la mente dalla sublime altezza della sua dignità nell'infimità, e ciò contro ogni giustizia? Fuggi dunque, o fratello mio, tutte queste inquietudini e miserie, e passa dalla tempesta di questo mondo al riparo sicuro e quieto del porto.

10. La tua saggezza conosce che cosa ci dice la Sapienza stessa: Chi non rinuncia a tutto ciò che possiede, non può essere mio discepolo. Quanto sia bello, quanto utile e quanto piacevole restare alla sua scuola sotto la guida dello Spirito Santo e apprendere la divina filosofia che sola dà la beatitudine vera, chi non lo vede?

11. Pertanto è necessario che la tua saggezza consideri con diligente esame che, se non ti invita l'amore di Dio, se non ti stimola l'utilità di tanto grandi premi, almeno debbono costringerti a ciò l'inevitabilità e il timore delle pene.

12. Sai, infatti, da quale promessa sei obbligato, e verso chi. Onnipotente e terribile è colui al quale tu hai consacrato te stesso quale offerta gradita e ben accetta; colui al quale non è né consentito né conveniente mentire, perché non sopporta di essere impunemente burlato.

13. Certamente, mio diletto amico, ricordi come un giorno trovandoci insieme io, tu e Fulcuio il Guercio, nel piccolo giardino adiacente alla casa di Adamo, dove allora ero ospitato, abbiamo parlato per qualche tempo, mi sembra, dei falsi piaceri e delle periture ricchezze di questo mondo ed anche delle gioie della gloria eterna. Allora, infiammati d'amore divino, promettemmo, facemmo voto e decidemmo di lasciare quanto prima le fugacità del secolo e captare ciò che è eterno, nonché di ricevere l'abito monastico. Questo proposito sarebbe stato attuato se Fulcuio, allora, non fosse partito per Roma; ne differimmo l'esecuzione al tempo del suo ritorno. Ma, poiché Fulcuio ritardava e intervennero altre cause, si raffreddò l'animo e il fervore svanì.

14. Che cosa, dunque, ti resta, o carissimo, se non scioglierti al più presto dai vincoli di un tale debito, per non incorrere, a causa di una così grave e così prolungata colpa di menzogna, nell'ira del Potentissimo, e, per questo, in immani tormenti? Chi dei potenti, infatti, si lascerebbe defraudare da qualche suo suddito di un dono promesso senza punirlo, specialmente se esso fosse per lui di grande stima e pregio? Pertanto, credi non a me, ma al profeta, anzi allo Spirito Santo che dice: Fate voti al Signore vostro Dio, ed adempiteli, voi tutti che, stando intorno a lui, gli portate doni: al terribile, a colui che toglie il respiro ai principi, al terribile verso i re della terra. Stai ascoltando il Signore, stai ascoltando il tuo Dio, stai ascoltando il terribile, colui che toglie il respiro ai principi, stai ascoltando colui che terribile è verso i re della terra. Perché inculca tutte queste cose lo Spirito di Dio, se non per spingere te, che ti sei obbligato con un voto, a mantenere le promesse? Perché hai difficoltà a mantenere ciò che non produce alcuna perdita o diminuzione dei tuoi beni, e che aumenta i tuoi guadagni più che quelli di colui al quale pagherai il tuo debito?

15. Non ti trattengano, perciò, le ricchezze fallaci, perché non riescono a eliminare la miseria, né la dignità di prevosto, che non può essere esercitata senza un grande pericolo per l'anima. Poiché convertire a proprio profitto i beni altrui, dei quali sei amministratore e non proprietario, è - consentimi di dirlo - un atto tanto odioso quanto iniquo. Che se sarai desideroso di successo e di gloria e se desidererai avere una numerosa servitù, non bastandoti ciò che legittimamente possiedi, non sarai forse costretto a sottrarre in qualche modo agli uni ciò che elargirai agli altri? Il che non significa essere benefico o liberale. Niente, infatti, è liberale se al tempo stesso non è giusto.

16. Ma anche, mio diletto amico, desidero persuaderti di una cosa, e cioè che per il servizio del signor arcivescovo, il quale confida e si appoggia molto sui tuoi consigli - e non è facile darne sempre giusti e utili - tu non ti lasci allontanare dalla divina carità, che tanto più è giusta quanto più è anche utile. E poi, che cosa è tanto giusto e tanto utile, e che cosa così insito e conveniente alla natura umana quanto l'amare il bene? E che cosa altro è tanto bene quanto Dio? Anzi, che cosa altro è bene se non solo Dio? Perciò l'anima santa, che, di questo bene, in parte percepisce l'incomparabile dignità, splendore e bellezza, accesa dalla fiamma d'amore dice: L'anima mia ha sete del Dio forte e vivo; quando verrò e mi presenterò davanti al volto di Dio?

17. Oh, potessi tu, fratello, non disprezzare le esortazioni di un amico! Oh, potessi tu ascoltare, non rendendo sorde le tue orecchie, le parole dello Spirito Santo! Oh se, dilettissimo amico, esaudissi il mio desiderio e la mia lunga attesa, affinché l'anima mia non sia afflitta più a lungo, per te, da preoccupazioni, inquietudini e timore! Poiché se ti accadrà -ma Dio non lo permetta - che tu muoia prima di aver assolto il debito del voto, lascerai me consumato in una continua tristezza senza neppure il conforto della speranza.

18. Pertanto, desidero fortemente supplicare ed ottenere da te che, almeno per devozione, ti degni di venire a San Nicola e, di lì, fino a me, perché tu possa vedere chi, in modo del tutto singolare, ti ama, e possiamo così insieme discutere a viva voce dello stato delle nostre cose e dell'osservanza religiosa ed, altresì, di quelle cose che riguardano la nostra comune utilità. E confido nel Signore che non ti pentirai di avere affrontato la fatica così gravosa di questo viaggio.

19. Ho superato il limite della brevità epistolare perché, mentre non posso averti presente fisicamente, almeno mi trattengo più a lungo con te mediante questa conversazione scritta.

Vivamente ti auguro, caro fratello, di godere a lungo di una buona salute, memore del mio consiglio. Ti prego di inviarmi la Vita di San Remigio, poiché dalle nostre parti non è possibile trovarla. Addio.

Mini bibliografia sul Silenzio

Ecco una piccola bibliografia per iniziare a leggere qualcosa sul silenzio.
Se hai qualche titolo da consigliarmi, basta postare un commento... Grazie


Ritrovarsi nel silenzio. Esperienze monastiche per la vita quotidiana
Grün Anselm, 2009, Queriniana

Il piccolo libro del silenzio
Grün Anselm, 2006, Gribaudi

Il silenzio interiore. Meditazioni da un monastero
Stutz Pierre, 2008, Gribaudi

Silenzio. Esperienza mistica della presenza di Dio
Canopi Anna M., 2008, EDB

Parole dal silenzio. La carità che brucia
Simpliciano della Natività, 2007, San Paolo Edizioni

Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista
Nouwen Henri J., 2005, Queriniana

Silenzio di Dio, silenzio dell'uomo
2005, Ancora

Amate il silenzio. Meditazioni
Spidlík Tomás, 2003, Gribaudi

Il silenzio, via verso la vita
Mancini Roberto, 2002, Qiqajon

Il silenzio. Pagine mistiche di santi e maestri spirituali
1998, Gribaudi

Dio nel Silenzio. Manuale A. Gentili Ancora 2009


San Benedetto e il Silenzio

IL DORMITORIO E IL SILENZIO NOTTURNO

APPUNTI SULLA

REGOLA DI S. BENEDETTO

di

D. Lorenzo Sena, OSB Silv.

Fabriano, Monastero S. Silvestro, Ottobre 1980


CAP. 22 - Come debbano dormire i monaci

CAP. 42 - Che dopo compieta nessuno parli


CAPITOLO 22

Come dormano i monaci

Quomodo dormiant monachi

Preliminari

Nella RM si parla del dormitorio nel capitolo sui decani nell'ambito della sorveglianza che essi dovevano esercitare (RM.11,109-120) e se ne parla anche nel c.29 a proposito dell'orario e del luogo per dormire. SB ne fa un capitolo a parte (RB.22) subito dopo quello sui decani (RB.21), come gia` aveva separato il consiglio dei fratelli dal capitolo sull'abate (RB.2-3) che in RM sono trattati insieme.

SB stabilisce tre cose: un letto per ogni monaco, rifare bene il letto alla levata, dormire vestiti e cinti e quest'ultima cosa per tre ragioni: essere pronti per l'Ufficio divino alla sveglia; evitare i pensieri impuri e la polluzione, non essere in ritardo all'Ufficio divino. SB conserva queste norme modificando qualcosa e abbreviando.

Evoluzione dalla cella al dormitorio, alla stanza singola

RM prescrive un dormitorio unico per tutti; RB una o piu` sale e inoltre luoghi separati per i novizi (RB.58), i malati (RB.36) e gli ospiti (RB.53). In tutte e due le Regole e` scomparso comunque l'uso delle celle separate, uso comune nel cenobitismo del secolo precedente (per il significato della cella, cf.Cassiano, Instit.10; Coll.24).

La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo V in Gallia (per evitare i vizi della proprieta` privata, della gola, dell'incontinenza), e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell'abbandono della cella sono il lavoro manuale e l'Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al dormitorio si deve vedere il fatto piu` importante della storia del monachesimo antico. La cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtu` elementari; salvare la poverta` e i buoni costumi sembra piu` urgente che l'orazione incessante.

La scelta per il dormitorio non e` un progresso, ma un palliativo; la vita comune non e` vista come un ideale superiore, ma come un rimedio richiesto dalla debolezza dei costumi. Del resto il sonno preso in comune non e` che un ulteriore atto di una evoluzione verso una piu` stretta vita comunitaria (si inizio` con la preghiera e il lavoro). "Tale cambiamento rispetto alla tradizione e` segno di vitalita` e di robustezza...; dobbiamo ammirare la liberta` che ci si prende di fronte alla materialita` della tradizione" (DeVogue).

Quando SB scriveva la Regola (secolo VI), il dormitorio comune era una cosa scontata. Con l'evoluzione poi nel corso dei secoli, specialmente per lo sviluppo preso dal lavoro intellettuale e per le mutate condizioni dei tempi, al dormitorio comune si vennero man mano sostituendo le stanze singole, dove ogni monaco non solo dorme, ma prega o lavora fuori dei tempi e dei luoghi stabiliti per gli atti comuni.

1-4: Letti e dormitorio

Non ci si meravigli del v.1: la disposizione che oggi sarebbe superflua, e` comune nelle regole antiche; la rozzezza e la semplicita` dei costumi esigeva l'esplicita proibizione che in un solo letto dormissero piu` persone. Qualche regola fissava anche la distanza tra un letto e l'altro. L'abate da` l'occorrente per il letto - un pagliericcio, una coperta leggera, una pesante e un cuscino; lo sappiamo da un altro passo della Regola (RB.55,15 - "pro modo conversationis", v.2).Che cosa significa precisamente? La traduzione piu` comune e`: "secondo il loro genere di vita, secondo le usanze monastiche", cioe` che l'arredamento del letto non disdica alla semplicita` e poverta` della professione monastica.

Pero`, considerando sopratutto un testo parallelo della "Vita Pachomii" 22 (in cui si nota la diversita` di condotta individuale in seno alla stessa comunita` monastica), si potrebbe anche intendere: "secondo il grado di fervore della vita monastica". La "conversatio" (il modo di condurre la vita monastica) puo` essere , secondo la Regola, "miserabile" (RB.1,21), puo` essere all'inizio o alla perfezione (RB.73,1-2), e` capace di un progresso (RB.Prol.49).A ciascuno di questi gradi corrisponde una maniera diversa di usare i beni materiali. Riguardo al letto, il tenore stabilito dalla Regola (RB.55,15) e` il massimo; ognuno puo` avere bisogno di meno, secondo il grado di ascesi raggiunto. "Questa diversita` di osservanza in seno alla comunita` puo` sembrare estrema al nostro gusto di uniformita`, ma non per questo e` in disaccordo con lo spirito del cenobitismo antico, dalle origini all'epoca stessa di SB" (DeVogue).

3-4: La lampada accesa di notte, in RM e RB

RM prevedeva che i letti fossero a cerchio intorno al letto dell'abate (RM.29,2-4) e che la lampada fosse spenta subito dopo che tutti si erano messi a letto (RM.29,6); per non sprecare olio, si dice!) e quindi se c'era bisogno di alzarsi di notte, si doveva parlare. RB divide la comunita` nel caso fosse troppo numerosa, in vari dormitori secondo le decanie e vuole che una lampada arda sempre nel dormitorio; e quindi che sia conservato il silenzio.

5-8: Modo di dormire e di levarsi

Gli antichi dormivano nudi; pero` i monaci devono dormire vestiti, Come risulta da RB.55,10 i monaci indossavano di notte una "tunica" corrispondente quasi alla nostra camicia e la "cuculla", che non aveva la forma attuale, ma somigliava piuttosto a un'ampia tonaca e arrivava al ginocchio o ai piedi. Di questi indumenti se ne prevedono due per "cambiarsi di notte e per lavarle" (RB.55,10).

Portavano poi ai fianchi una cintura o corda, richiamandosi anche di notte al precetto del Signore: "Siano cinti i vostri fianchi..." (Lc.12,35). Per capire tutto il; v.5, bisogna ricordare che di giorno i monaci portavano una cintura larga di cuoio, detta "bracile" (RB.55,19), a cui si appendevano utensili da lavoro. SB avverte che i fratelli devono, si`, essere cinti anche di notte, ma non di bracile, bensi` di cinture semplici, di cordicelle, per evitare il pericolo di portare a letto anche i coltelli e le roncole, che sono abitualmente appesi al bracile. Tale pericolo e` descritto nei particolari da RM.11,112.

(v.6). Stando a letto vestiti e cinti, i monaci erano gia` in ordine per poter accorrere all'Ufficio notturno. Un po` di pulizia e il necessario cambiamento degli indumenti per il giorno, si faceva dopo, forse prima di andare al lavoro. "Cosi` i monaci siano sempre pronti...": c'e` in questa frase tutta la spiritualita` della veglia e dell'attesa del Signore; il tema della vigilanza (Mt.24,42-51; 25,1-13; Mc.13,33-37; Lc.12,35-48) era cosi` caro al monachesimo antico; tutta la vita monastica deve essere una vigilia orante, una perenne attesa del Signore, che e` sempre vicino, ma che viene sempre, finche` tornera` definitivamente (cf. quanto detto sul senso della veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).

(v.7). I letti dei giovani sono alternati a quelli degli anziani (seniori = adulti, o piu` probabilmente i decani): RB non pensa tanto ai pericoli per la castita`, piuttosto alla dissipazione e alla pigrizia.

(v.8). Alla levata i monaci si esortino vicendevolmente. SB e` condotto da due principi: la carita` fraterna (relazioni orizzontali che mancano in RM) e il ritegno nel parlare. I monaci vengono consigliati non solo ad emularsi nell'accorrere all'Ufficio, sia pur sempre con gravita` (v.6), ma anche a dirsi parole di incoraggiamento sia pure con moderazione (v.8), per togliere ogni scusa ai sonnolenti.

Nonostante quindi la gravita` del silenzio notturno (cf.RB.42 trattato subito appresso), SB mette le relazioni fraterne al di sopra, mostrando fino a qual punto egli consideri vitale l'educazione reciproca, il rapporto dei fratelli, di cui trattera` esplicitamente negli ultimi capitoli della Regola.


CAPITOLO 42

Che dopo compieta nessuno parli

Ut post completorium nemo loquatur

Preliminari

RB.42 corrisponde a RM.30. Ambedue le Regole stabiliscono un legame tra i pasti e il silenzio notturno (in RB.41 si parla dell'orario dei pasti). Il titolo accenna solo al silenzio, ma il capitolo parla piu` a lungo della lettura che precede compieta.

1: Osservanza del silenzio

Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c.19 e il c.49). La Regola ha gia` parlato dell'amore al silenzio (la "tacitirnitas") nel c.6; ora ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una posizione di privilegio va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'e` la parola "silentium" (non "taciturnitas"), che ha un senso piu` energico e assoluto.

2-7: Lettura prima di compieta e riunione di tutta la comunita`

Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra loro: la lettura prima di compieta e la riunione di tutta la comunita`. RM 30,1-11 prevede a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazio0ne tra i fratelli di cose necessarie, prima del silenzio rigoroso. RB insiste di piu` sulla riunione di tutta la comunita` che sul silenzio a cui prepara compieta. Questa insistenza sembra giustificata dal fatto che SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.

A volte si e` interpretata la lettura in comune solo come un modo di approfittare del tempo mentre i fratelli erano occupati in qualche ufficio (cosi` anche il Lentini); ma non sembra troppo esatto vedere la cosa solo cosi`. SB da` un'importanza evidente a questa lettura vespertina fatta in comune. Indica alcune opere: le "Collazioni" di Cassiano e le "Vitae Patrum" (cf. introduzione generale), testi tipicamente monastici o "altre opere di edificazione" (v.3).Lettura pubblica ed edificazione di chi ascolta vanno sempre di pari passo nella Regola (RB.38,12; 47,3; 53,9), tanto che SB si preoccupa di non far leggere in quell'ora piu` propizia alla tentazione niente meno che alcuni libri della S.Scrittura: l'Eptateuco (i primi sette libri della Bibbia: Pentateuco + Giosue` + Giudici) e il libri dei Re (1-2 Samuele e 1-2 Re); non si considera dannosa la lettura dei libri sacri (difatti bisogna leggerli in altri momenti (v.4) perche` sono parola di Dio), ma si pensa che alcune storie scabrose li` riferite potevano suscitare a 1uell'ora immagini sconvenienti alla fantasia delle "menti deboli" (v.4).

SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunita`. Anche Cassiano notava che tali letture dell'AT non erano adatte agli "spiriti deboli e infermi" (Coll.19,16).

Significato della lettura

La lettura vespertina ha un valore proprio, di preparazione non tanto per compieta quanto per la notte. La notte da una parte e` segno del male, delle tenebre spirituali e piena di misteriosi pericoli per lo spirito; dall'altra parte e` propizia, come nessun altro tempo, alla riflessione e alla preghiera. SB dice di leggere "quattro o cinque fogli" (v.6) - era molto, sopratutto in quell'epoca - e nel frattempo devono arrivare tutti i fratelli.

Importanza della presenza di tutti i fratelli

Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si trovano espressioni che richiamano questo fatto: "seggano tutti insieme" (v.3); "si radunino tutti" (v.7); "tutti insieme" (v.8). Perche` questo far arrivare tutti? per assicurare l'osservanza del silenzio notturno? perche` tutti ascoltino (almeno un po`) la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti insieme la giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo e` che SB vuole tutti insieme i membri del monastero nel momento conclusivo della giornata.

8: Compieta e silenzio notturno

Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi "a nessuno sia permesso proferire parola" (v.8). La comunita` intera si immerge nel gran silenzio della notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio ("Nessuno parli a un altro di notte", Reg.Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano ha: "Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a scambiare parola con un altro", Inst.2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la castita` (si suppone la dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una motivazione liturgica: difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: "Poni, Signore una custodia alla mia bocca..." (salmo 140,3) e terminava con il versetto: "Signore, apri le mie labbra..." (salmo 50,17) (RM.30,12-16).

RB (e anche RM) tende a favorire il riposo di tutti. E questo si spiega con il passaggio dalla cella al dormitorio comune (cf.pagine precedenti RB.22): stando insieme i monaci debbono stare attenti a non disturbarsi nel sonno (cf.RB.48,5) e nella preghiera (cf.RB.52,2-3), cose che prima i monaci compivano nella loro cella. Quindi il silenzio notturno ormai ha una caratteristica di sensibilita` fraterna piu` che di protezione contro i pericoli della castita`.

9-11: Penalita` ed eccezioni

Conclude il capitolo una prescrizione severa contro i trasgressori del silenzio notturno (v.9) e il caso di due eccezioni: l'arrivo di ospiti e un eventuale ordine dell'abate (v.10), per terminare con un'osservazione circa la gravita` e la delicatezza nell'uso della parola in tali occasioni eccezionali.

Nota per noi monaci di oggi

Forse noi, monaci di oggi, dobbiamo rieducarci a riscoprire il "grande silenzio" della notte. Certo, SB vede quanto sia necessario il silenzio notturno per salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma e` anche certo che pensa alla "spiritualita`" - per cosi` dire - della notte.

La notte e`, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova alleanza: nel silenzio della notte il Verbo incarnato e` apparso per la prima volta tra noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore e` risorto dal sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il monaco dovrebbe, in questo grande silenzio, prolungare la sua preghiera personale che nasce dalla liturgia e delle liturgia e` luce e alimento (cf. di nuovo quanto detto sulla notte e la veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).

Nei nostri monasteri, forse, dovremmo tornare a riflettere con maggiore scrupolosita` su questo capitolo e su questo aspetto della spiritualita` monastica. In tal senso, forse, va riconsiderato l'uso della televisione.

giovedì 18 marzo 2010

» 18/12/2005 12:14
VATICANO
Papa: il silenzio di san Giuseppe contro il "troppo rumore" del mondo
Ricorda la devozione di Giovanni Paolo II alla figura di san Giuseppe. Benedetto XVI era di ritorno dalla sua prima visita pastorale a una parrocchia romana.

Città del Vaticano (AsiaNews) – In un mondo "troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l'ascolto della voce di Dio", i cristiani devono "lasciarsi 'contagiare' dal silenzio di san Giuseppe". All'Angelus di oggi Benedetto XVI ritorna sul modo più vero di prepararsi al Natale. La scorsa settimana ha criticato il troppo consumismo legato alla festa e a suggerito il presepio come mezzo di evangelizzazione e di educazione alla fede in famiglia e nella società. Oggi propone il silenzio, la preghiera, la contemplazione "per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita" e lo fa indicando la figura di san Giuseppe, padre putativo di Gesù. Il papa ricorda che Giovanni Paolo II vi era molto devoto e ha dedicato a questo santo l'Esortazione apostolicaRedemptoris Custos, "Custode del Redentore". Sulla figura di san Giuseppe si è fatto spesso ironia fra i non cristiani; fra i cattolici si esalta solo la sua funzione "legale" – per rendere Gesù 'figlio di Davide' – e di sostegno economico della sacra Famiglia. Benedetto XVI sottolinea un'altra funzione, anche teologica e umana di questo santo: "Non si esagera – ha detto il papa - se si pensa che proprio dal "padre" Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell'autentica giustizia, la "giustizia superiore", che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli".

Il papa era di ritorno dalla sua prima visita pastorale a una parrocchia di Roma, Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone, dove in passato è stato cardinale titolare (1977- 1993).

Ecco le parole del Papa prima della preghiera mariana:

Cari fratelli e sorelle!

In questi ultimi giorni dell'Avvento la liturgia ci invita a contemplare in modo speciale la Vergine Maria e san Giuseppe, che hanno vissuto con intensità unica il tempo dell'attesa e della preparazione della nascita di Gesù. Desidero quest'oggi rivolgere lo sguardo alla figura di san Giuseppe. Nell'odierna pagina evangelica san Luca presenta la Vergine Maria come "sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe" (Lc 1,27). E' però l'evangelista Matteo a dare maggior risalto al padre putativo di Gesù, sottolineando che, per suo tramite, il Bambino risultava legalmente inserito nella discendenza davidica e realizzava così le Scritture, nelle quali il Messia era profetizzato come "figlio di Davide". Ma il ruolo di Giuseppe non può certo ridursi a questo aspetto legale. Egli è modello dell'uomo "giusto" (Mt1,19), che in perfetta sintonia con la sua sposa accoglie il Figlio di Dio fatto uomo e veglia sulla sua crescita umana. Per questo, nei giorni che precedono il Natale, è quanto mai opportuno stabilire una sorta di colloquio spirituale con san Giuseppe, perché egli ci aiuti a vivere in pienezza questo grande mistero della fede.

L'amato Papa Giovanni Paolo II, che era molto devoto di san Giuseppe, ci ha lasciato una mirabile meditazione a lui dedicata nell'Esortazione apostolicaRedemptoris Custos, "Custode del Redentore". Tra i molti aspetti che pone in luce, un accento particolare dedica al silenzio di san Giuseppe. Il suo è un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai voleri divini. In altre parole, il silenzio di san Giuseppe non manifesta un vuoto interiore, ma, al contrario, la pienezza di fede che egli porta nel cuore, e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione. Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all'unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal "padre" Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell'autentica giustizia, la "giustizia superiore", che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli (cfr Mt 5,20).

Lasciamoci "contagiare" dal silenzio di san Giuseppe! Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l'ascolto della voce di Dio. In questo tempo di preparazione al Natale coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita.

SILENZIO E PREGHIERA


SILENZIO E SOLITUDINE

Il nostro rapportarci con gli altri, e quindi anche con Dio è costituito soprattutto da parole.
Ma esiste un rapporto, un
dialogo, più profondo, ed è quello che fa a meno delle parole perché queste vengono rimosse dal silenzio pregno di significato.
Nella misura in cui progrediamo nell’intimità di una persona, e perciò anche di Dio, spariscono le parole perché non più necessarie in vista dell’incontro: il dialogo si attua attraverso il volto, lo sguardo.
L’incontro è permeato di una sola parola pregna di amore e di silenzio. E’ un silenzio non vuoto né sterile, ma estremamente fecondo.
Purtroppo viviamo in un contesto culturale in cui prevale l’esteriorità che si vuole creativa, ma che è solo proliferazione di stimoli di immagini e parole perché l’interiore è vuoto e fa paura.
Questa proliferazione rivela il disagio della persona a rimanere con se stessa nel silenzio.
Ma nello stesso tempo occorre che prendiamo coscienza di come spesso viviamo in un silenzio sterile, vuoto, triste, carico di rancore e risentimento verso noi stessi, gli altri, l’ambiente.
Si tratta di un silenzio negativo, che ci ripiega su noi stessi: è una fuga dalla realtà e rivela l’incapacità di dialogo.
Il silenzio autentico e fecondo non ci spinge al ripiegamento su noi stessi, ma ci apre alla realtà di noi stessi, agli altri e a Dio.
E’ un silenzio che parla, che si pone in dialogo e ascolto, è fatto soprattutto di amore.
Ogni vera parola è avvolta dal silenzio meditativo, la vera parola non è mai solo esteriore, ma promana dal silenzio del profondo del cuore.
Solo a questa condizione essa è feconda. Tanta predicazione è vuota perché la parola non attinge alla fecondità del silenzio.
Comprendiamo che il silenzio è indispensabile alla vita spirituale ve desideriamo porci in ascolto autentico, dialogico con la Parola che nel silenzio ci raggiunge: “
La ricerca dell’intimità con Dio porta con sé la necessità veramente vitale di un silenzio di tutto l’essere, sia per coloro che devono incontrare Dio perfino in mezzo allo strepito, sia per i contemplativi” (Ev. Test. 46).

CONTEMPLAZIONE E COMBATTIMENTO

Di Mosè il libro dell’esodo dice: “Il signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es. 33,11).

Mosè è la figura di colui che “contempla faccia a faccia” il mistero di Dio. Tra lui e Dio intercorreva un dialogo intimo di amicizia e amore.
Potremmo affermare che ogni orante quando si lascia “prendere”, “afferrare”, “mettere in catene dallo Spirito” (cf At 20), dalla vicinanza con Dio che è sempre travolgente, si trasforma, viene trasformato in un essere forgiato dalla forza, dalla purezza e dal fuoco dello Spirito (cf Detti: “Diventa tutto di fuoco”). E di questo i santi sono tutti testimoni.
E’ significativo di come Dio esiga nei suoi incontri con Mosè una solitudine assoluta:
- “
Mosè avanzerà solo verso il Signore” Es 24,2
- “
Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria di JHWH venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti” Es 24,15-18
Dall’incontro con questo “fuoco divoratore” Mosè esce col volto trasfigurato e abbagliante: è il segno dell’incontro avvenuto con l’inaccessibile: “
Quando Mosè scese dal Monte Sinai… non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui” Es 34,35.
La prima considerazione allora è data dal fatto che Mosè “estremamente impegnato” nella sua opera a favore del popolo fu un uomo che come pochi coltivò una contemplazione fatta di silenzio e di solitudine.
Così Elia, il profeta di fuoco, fiamma devastatrice e purificatrice, dalla tradizione è chiamato l’”Uomo di Dio”. Anche per lui è indispensabile entrare nel silenzio e nella solitudine per incontrare JHWH: “
Vattene di qui, dirigiti verso oriente, nasconditi presso il torrente Kerit” (1Re 17,6).
Caratteristica sua sarà il non avere una dimora, una casa di pietra: sua abitazione è la solitudine del deserto come per san Giovanni battista.
Ed è nel deserto del Monte Oreb che egli farà l’esperienza del Dio terribile che si manifesta nella brezza (cf 1Re 19,8-18).
L’unica sua preoccupazione ed interesse è la gloria di Dio. Ed è per questo che la potenza, la forza, la determinatezza del Signore si manifestano nei suoi gesti e nelle sue parole.
Profeta di JHWH diviene strumento docile nelle sue mani perché la sua vita è un continuo ritirarsi nella solitudine per dimorare con Dio, e un andare agli uomini per essere annunciatore della vera fede.

IL VERBO SILENZIOSO

Anche la venuta del Verbo nel mondo contempla fasi di grande silenzio.
- L’Incarnazione è il momento dell’umiltà, del nascondimento, del silenzio.
- La sua nascita avviene di notte, “mentre il silenzio avvolgeva ogni cosa e la notte era a metà del suo corso”.
- Nazaret: trent’anni di inspiegabile e sconcertante silenzio e nascondimento (solo un versetto nel vangelo!)
- Il suo ministero: un alternarsi di parole e di silenzio contemplativo e adorante.
- La sua passione: Gesù accusato tace
- la sepoltura: il silenzio della morte
- la risurrezione: avviene nel silenzio del primo mattino. “Beata sei tu o notte che sola conoscesti l’ora” (Preconio pasquale).
Possiamo aggiungere il silenzio del sacramento eucaristico: un povero segno che rimanda alla fede, all’apertura degli occhi del cuore come per i discepoli di Emmaus.

CONTEMPLAZIONE

Nel silenzio consapevole che ci pone dinanzi a Dio e a noi stessi la nostra vita viene trasformata, rettificata. La presenza di Dio dissipa tutto ciò che vi si oppone.
La contemplazione fa sì che tutto ciò che era oggetto di una fede, in un certo senso staccata da noi (quae creditur), diventi oggetto di un’esperienza vitale, totalizzante, misteriosa ma realissima (qua creditur).
E’ a questo livello che si comprende. Si tratta di una comprensione del cuore più che di intelletto.
Nella contemplazione ci rendiamo consapevoli di come la nostra stessa esperienza di Dio sia sempre parziale, mai posseduta: essa è spesso presentimento e pregustazione.
Impariamo così a porci dinanzi al Padre nel silenzio umile e adorante limitandoci a guardare con amore sapendo di essere a nostra volta guardati con amore attraverso gli occhi del Figlio crocifisso.
Potremmo definire la contemplazione come una operazione spirituale sintetica, totalizzante, affettiva e unificante.

CHIAMATI ALLA CONTEMPLAZIONE

Ogni uomo è chiamato in forza della sua natura di creatura intelligente alla contemplazione. Afferma a questo proposito la Gaudium et Spes 18: ” Dio chiama l’uomo ad aderire a lui con tutta intera la sua natura, in una perpetua comunione con l’incorruttibile vita divina“.
Chiamati ad aderire a Dio! E questo tramite l’amore, la conoscenza, l’impegno e l’abbandono in lui.
E quando parliamo di contemplazione dovremmo sempre unire due termini: l’adesione del cuore e la conoscenza ella mente.
Nella Scrittura il “conoscere” non equivale al semplice sapere, ad una cognizione puramente intellettuale; esso esprime sempre una relazione esistenziale fra chi conosce e l’oggetto o la persona conosciuta.
Conoscere Dio comporta l’entrare in relazione con lui, l’immergersi nella corrente della sua vita, che procede da Dio e a lui ritorna.
Paolo VI in un discorso pronunciava queste parole: “
Che Dio esiste, che è reale, che è vivente, che è personale, che è provvido, che è infinitamente buono, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità; in tal modo che lo sforzo di fissare in lui lo sguardo e il cuore, ciò che chiamiamo contemplazione viene ad essere l’atto più alto e più pieno dello spirito, l’atto che oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana”.
Nella contemplazione l’immagine di Dio è estremamente semplificata, riducendosi ads un accostarsi al suo mistero in purezza essenziale di fede.
Le parole meditative, discorsive, della nostra preghiera portano con sé frammenti, particelle di dio, solo la contemplazione silenziosa che non si serve di parole, ma è puro sguardo totalizzante, può tentare di abbracciare l’infinito e l’incomprensibile.
Il Siracide domanda: “
Chi lo ha contemplato e lo descriverà? Chi può magnificarlo come egli è?” (43,32).

IN PIENEZZA

Dio “chiama l’uomo ad aderire a Lui con tutta intera la sua natura” (GS).
Il nemico della contemplazione è dunque ciò che vi è contrario, ovvero la dispersione, la molteplicità.
Dispersione è il frantumarsi dell’io in mille direzioni contrastanti. Il suo contrario è la “con-centrazione”, l’essere tratto in un sol luogo, è ciò che permette di ritrovare se stessi, cosa impossibile nella dispersione.
Attraverso la concentrazione ci è possibile incontrare Dio al centro di noi stessi, come nostra sorgente. Infatti l’uomo percepisce il suo essere, il suo esistere quando diviene consapevole di se stesso.
Ma il più delle volte non siamo in noi stessi, perché spezzettati in mille direzioni.

Sintesi di: I. Larannaga, Mostrami il tuo volto

L'Ascolto, la Parola e il Silenzio

Esperienze di vita a cura di Pierluigi Piazza


Sul Sentiero

Anonimo - novembre 2007
capitolo 15 -
L’Ascolto, la Parola e il Silenzio


L’Ascolto, la Parola e il Silenzio

La comunicazione tra gli uomini può apparire spesso difficile e, talvolta, dolorosa a causa di incomprensioni e malintesi. Frequentemente non abbiamo idee chiare né voglia di ascoltare realmente, e discutere diventa solo un confrontarsi per “mostrare i muscoli” esibendo capacità logiche e dialettiche. Plutarco, ed altri saggi, ci hanno mostrato la via del vero Ascolto, che fa il vuoto di opinioni e giudizi pregressi (1).
In qualsiasi confronto, dovremmo poter vincere la tendenza a rispondere immediatamente, sull’onda dell’emotività, poiché, in quel caso, la risposta, che potremmo considerare benevolmente “spontanea” o “istintiva”, nasce, in realtà, da abitudini mentali precedenti, da preconcetti, da pensieri ripetitivi che “già” sono nella nostra mente. In tal modo non ci dimostriamo pronti ad un eventuale ampliamento di
coscienza né ad un reale ascolto che possa farci cambiare.

Ad un ascolto attento si accompagna il giusto uso della Parola. Afferma un detto ermetico: “Le cose sono ciò che la Parola ne fa col nominarle”.
Oggi l’umanità è molto più mentale del passato e ciascuno immette nei canali dell’esistenza un flusso massiccio di parole. Le parole scritte sono suscettibili di modifiche, all’atto della loro emissione; sono più facilmente controllabili perché sottoposte a preventiva
riflessione. Quelle parlate seguono spesso canali emotivi non ancora vigilati e purificati, non consentono di “tornare indietro”, di “cancellare”, non sono rivedibili né modificabili.
Da ciò nasce il grande impegno di ogni Pensatore, in particolare del ricercatore spirituale. Le parole non sono “neutre”, sono energia vivente e con esse possiamo creare o distruggere, abbassare o elevare, potenziare o indebolire.
La Parola è uno dei poteri più grandi che l’uomo possiede; se usata consapevolmente per il
Bene, essa può guarire, illuminare, proteggere, salvare.
Ci viene pertanto consigliato di ridurne il numero e di vigilare attentamente su di esse, affinché rispondano a caratteristiche di:

§ verità;

§ amorevolezza;

§ utilità.

In Oriente si considera ogni parola un mantra (da man e tra: rapporto) che indica la modalità del suono, la nota con cui entriamo in rapporto con gli altri. Ogni parola è un nucleo energetico che rappresenta un’idea, o un insieme di idee; essa, inviato a una persona, o a un gruppo, produce effetti proporzionali alla potenza dell’emittente e alla maggiore o minore purezza della sua intenzione. Ciò corrisponde ad una precisaverità confermata dalla Saggezza antica: “L’energia segue il pensiero e la Parola è ciò che lo concretizza”.
Di ogni parola – ammonisce il
Vangelo – l’uomo dovrà rendere conto; non solo di quelle ispirate a sentimenti positivi o negativi, ma anche di quelle vane ed inutili.
Spesso le nostre parole sono “profane”, cioè sono pronunciate senza entrare in contatto con la coscienza più profonda, con il
. La mente ripete ed esprime contenuti captati dalle forme-pensiero collettive: luoghi comuni, opinioni diffuse, pettegolezzi, banalità che non sono il frutto del nostro pensiero più genuino ma riflessi condizionati del “campo morfogenico” nel quale siamo costantemente e quasi sempre inconsapevolmente immersi.
La parola è allora vuoto suono senz’
anima.
Il modo in cui usiamo l’energia compressa nelle parole
ri-vela (toglie il velo) il rapporto che abbiamo con gli altri e la modalità con la quale operiamo nel mondo. Così, se esprimiamo ripetutamente concetti costruttivi e luminosi, le azioni che ne deriveranno possederanno senz’altro la stessa vibrazione; se ci rivolgiamo ad altri con parole ispirate all’amorevolezza, quella stessa qualità si riverbererà nella nostra vita. Riguardo a noi stessi, e alla nostra auto-educazione, evitiamo pertanto di dire: “Sono pauroso, cercherò di esserlo meno” o “Non voglio più essere pigro”; evitando i “non”, i “meno” e le affermazioni al negativo, che influenzano sfavorevolmente il nostro inconscio, potremmo dire: “ Mi muovo ogni giorno verso il Coraggio” o “Divento sempre più attivo”.
L’accuratezza nell’uso delle parole – che eviti tuttavia di scadere nell’accademismo e nella retorica – è segno di
Ordine e di Bellezza, che sono qualità richieste sul Sentiero. Utile e ispirante è anche la ricerca delle etimologie, che non dovrà ridursi certamente a “sfoggio di cultura” ma potrà essere il mezzo per entrare in contatto con l‘essenza delle parole, spesso banalizzata dall’uso quotidiano. Si può, attraverso questo studio, riscoprirne la forza primigenia e chiarificatrice di significati. Così, ad esempio, il termine “entusiasmo”, tanto comunemente usato, rimanderà al senso di avere “un dio” (theos) dentro (én); ogni volta che lo useremo, dopo averne colto la forza originaria, vi sarà dentro di noi una diversa considerazione dello “spessore” della parola.
Afferma un’ispirata invocazione:
“Possa io compier la mia parte nel Lavoro Unico con l’oblio di me stesso, l’innocuità e la giusta Parola!”.

E’ necessario considerare anche il profondo valore del Silenzio.

La nostra società, presa dal vortice delle parole, teme il silenzio, che appare invece spesso utile e necessario, e, in alcune circostanze, saggio e sacro.

La mentalità comune ritiene che silenzio sia semplicemente la mancanza di parola. La parola è estremamente importante nei gruppi umani ma ha anche dei limiti: non arriverà mai ad esprimere perfettamente ciò che vorremmo perché ogni espressione verbale, per quanto possa apparire significativa, è sempre, almeno in parte, una cristallizzazione del nostro retaggio culturale.
Ecco perché il vero silenzio interiore può contribuire a farci percepire meglio il senso e la necessità di ogni parola, ad avvertirne la pertinenza o l’inutilità.
E’ nel silenzio che noi riusciamo a trascendere ogni forma di linguaggio stereotipato. In esso entriamo nella dimensione del meta-linguaggio, il quale ci aiuta a padroneggiare meglio la situazione per non scadere nei luoghi comuni e lasciarci inconscientemente condizionare dalla mentalità corrente.
Il vero silenzio interiore, quindi, consiste nel non dare per scontati concetti, immagini, e persino il valore attribuito a termini acquisiti sin dall’infanzia; esso è uno dei principali motori del vero progresso civile ed etico.Per questa operazione sono richiesti vigilanza, saggezza e determinazione perché la nostra mente è avida di contenuti e teme il vuoto.

Anticamente “andare nel deserto” significava rientrare in se stessi per fronteggiare meglio le situazioni esterne; i monasteri di clausura usano ancora, a proposito del silenzio interiore, l’espressione “fare deserto”.
Affermava il poeta e scrittore francese Alfred de Vigny: “
Solo il silenzio è grande; il resto è debolezza”.